Ho solo tre ore dal momento in cui sono atterrata all’aeroporto Marco Polo fino a quando verranno a prendermi. È stato il quinto aereo preso in una settimana che non troverà mai eguali nella mia vita. Sono stanca ma felice perché Venezia è un luogo straordinario e tre ore possono essere tante.

Cammino piano con la digit tra le mani, evito i luoghi affollati. La strada mi porta alla base di un ponte dove poi mi fermo. Inquadro le scale vuote, la gente passa, sorride e non capisce. Sono immobile, sorrido e li capisco. Dopo qualche minuto, due gambe con relativi piedi compaiono di corsa nel mio fotogramma. Scatto. È un’immagine curiosa, quella che vedrò poi, chiusa nella mia digit. Ma a me piace cercare e capire, e respirare piano la realtà che mi circonda fino al momento in cui questa, nel bene o nel male, impatta dentro di me.

Cammino ancora, ho il naso per aria e allora lo vedo. Il bambino parla da solo, gesticola frenetico come se stesse raccontando una storia. Lo guardo con attenzione. Sì, sta proprio raccontando qualcosa, a chi non so, perché vedo solo lui alla finestra. Ma è bello questo momento. Lo guardo ancora, sorride e si agita. Non ascolterò mai le sue parole, sono troppo lontana, ma la sua storia mi prende dentro.

Lo fermo così, mentre gesticola. Poi mentre aggrotta le sopracciglia e si volta verso l’interno della casa. E ancora, mentre guarda fuori e arriccia le labbra finalmente in silenzio. Quando va via, mi lascia un po’ intontita in mezzo a questa piccola piazza.

Avevo solo tre ore ma nell’impatto il tempo si è disintegrato insieme a tutto il resto. Sono rimasta sola, con una storia dentro la mia digit, un raro senso di quiete nella mia testa e un sorriso idiota stampato sulla faccia.

E sono andata via pensando a quanto sia incredibile questa realtà che, a volte, mi esplode dentro, brucia la mia anima e mi lascia sempre, sempre sfinita.